
MENSILE INTERNAZIONALE DI NAVIGAZIONE
Articolo di Lucio Petrone
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UNA STORIA: LA NOSTRA, LA VOSTRA
Ricordare e scrivere più di trent'anni di vita non è
facile, perché entrando nei dettagli si rischia d'esser
prolissi e noiosi ma forse anche presuntuosi, perché
l'importanza dei fatti che ci coinvolgono, porta inconsciamente a
dare ad essi più evidenza. Ma più che quella delle
persone, che pure sono importanti, questa è la storia
della rivista e attraverso di essa della nautica italiana, che
proprio in questi trent'anni ha conosciuto uno sviluppo una volta impensabile.
"Se vi serve qualcuno per impaginare e per dare una mano in
redazione - dissi a Vincenzo - mi piacerebbe partecipare."
"Per me va bene - mi rispose - ma devo parlarne con Mario e Bernardini."
Così, fu deciso un incontro a Via Denza (ai Parioli, in
Roma, n.d.r.). Mario Sonnino Sorisio già l'avevo
conosciuto all'Italcraft, c'erano reciproca stima e simpatia, e
avevo avuto modo d'incontrare anche il fratello Sergio, che,
ricordo, aveva affascinato Vincenzo con le sue argomentazioni tecniche.
Di Enzo Bernardini, invece, mi erano noti solo il nome e il ruolo
che avrebbe svolto nell'iniziativa editoriale: il più
importante, le funzioni di editore. Gli andai bene. Così
entrai a far parte di quello che molti chiamano un miracolo
editoriale e che invece di miracoloso ha ben poco, perché
si è sempre basato sulla grande professionalità dei
suoi autori a tutti i livelli.
Infatti, "Nautica" non nacque per caso, ma fu
l'espressione della passione e degli interessi di un nucleo di
persone che finirono per coagularsi attorno a un filone, cui
Vincenzo Zaccagnino e anche chi scrive, avevano dato inizio,
attraverso le pagine di un'altra rivista alla quale collaboravano
in precedenza.
E non si può fare la storia di "Nautica" e della
nautica senza sintetizzare quello che c'era prima in questo
settore editoriale. La più antica rivista italiana del
diporto era "Vela e Motore" e anche noi ne eravamo lettori,
seguendo con attenzione il discorso sulla barca a vela ideale,
promosso dall'associazione dei Fratelli della Costa. A Milano si
editavano, dagli inizi degli anni cinquanta, anche "Spruzzi
e Virate" e "Le Vie del Mare". A Roma, invece, si
pubblicava "Italia sul Mare", dedicata, con molto
seguito, alla sofferta storia della nostra flotta militare e al
rilancio della sua immagine. Vincenzo riuscì a farsi
affidare su di essa una rubrica di nautica da diporto che, poi,
divenne una sezione e, quindi, addirittura la parte più
importante della rivista. Io, che collaboravo a "Le vie del
Mare", lo seguii, con una serie di servizi giornalistici e
fotografici sui porti italiani - la Guida dei porti d'Italia per
il diporto - e con altre collaborazioni.
Comunque, Vincenzo e chi scrive avevano già una notevole
esperienza di giornalismo alle spalle, anche nel settore
dell'auto con "Motor", quando ancora non esisteva "
Quattroruote" e il giornale romano era il più
importante in assoluto.
Come si dice, eravamo giovani di belle speranze e a noi si
aggiunse Carlo Marincovich, anche lui con qualche esperienza,
tanta passione e tanta voglia di approfondire, che poi sarebbe
diventato editore e direttore di "Forza 7" e in seguito capo
servizio sport e inviato del quotidiano "Repubblica". Così,
essenzialmente col nostro contributo, "Italia sul
Mare" da rivista prettamente militare si era trasformata in
una nuova proposta per la nascente nautica del dopoguerra.
La rivista cresceva, e con essa la pubblicità del settore,
tra cui quella di un cantiere appena nato sul lago di Bracciano,
l'Italcraft dei giovani e intraprendenti fratelli Sonnino
Sorisio, che, abbandonando la tradizionale attività di
commercio all'ingrosso di famiglia, avevano deciso di tentare la
fortuna assecondando la loro passione per il mare. Tra i due,
Mario era più lo sportivo - aveva disputato alcune gare
automobilistiche, fu tra i primi in Italia a praticare lo sci
d'acqua e forse il primo a sciare a piedi nudi - e Sergio,
invece, era più versato per un'esperienza tecnica.
Frattanto, la vendita degli spazi pubblicitari di "Italia
sul mare" e di "Vela e Motore" era affidata alla
S.P.I. e l'agente che per essa visitava l'Italcraft e altri
operatori nel Lazio si chiamava Enzo Bernardini, un protagonista
della promozione cinematografica, anche brillante organizzatore
di manifestazioni e concorsi, che i suoi colleghi chiamavano, lo
seppi dopo, "il mastino", per la sua tenacia e determinazione.
Eravamo ormai nel '61 e naturalmente, anche se giovani, avevamo
la necessità di un rapporto diverso da quello della
semplice collaborazione, desideravamo un vero rapporto di lavoro.
L'editore nicchiava e Carlo confidò il suo malcontento a
Mario Sonnino, che, da imprenditore innato, intuì
immediatamente il da farsi, come magistralmente ha narrato lo
stesso Marincovich cinque anni fa su "Nautica", in un articolo
sulle origini della rivista.
Mario comprese che forse una nuova pubblicazione si poteva
creare, anche perché si affidava a persone che avevano
già dato vita a un prodotto di successo. Per il resto, lui
e il fratello Sergio, ormai veri esperti di costruzioni nautiche,
stavano lanciando per primi in Italia una barca con la nuova,
rivoluzionaria carena Hunt e avevano bisogno di un mezzo che la promuovesse.
E per tentare l'impresa cooptarono Francesco Cosentino - che di
lì a breve sarebbe divenuto segretario generale della
Camera dei deputati e, successivamente, campione mondiale
d'offshore e presidente della F.I.M.- un vero appassionato del
diporto, con molte idee sulle battaglie da svolgere in favore
della nautica, e, appunto, Enzo Bernardini, di cui avevano
apprezzato l'intelligenza e le capacità.
Abbiamo sempre considerato Mario la mente di tutta l'operazione,
quello che riusciva a smussare gli angoli nei caratteri dei soci,
che col suo senso della realtà riusciva a mantenere tutti
con i piedi per terra. E il suo fiuto lo consigliò molto
bene: puntare su Zaccagnino per la direzione e su Bernardini per
la conduzione editoriale. Lui, invece, avrebbe continuato col
fratello Sergio nella conduzione dell'Italcraft. (situazione che
è perdurata fin quando, nel '74, separando le
attività, Sergio ha ceduta a Mario la sua quota di
proprietà di "Nautica" e Mario ha lasciato al fratello il cantiere).
E fu anche questa una scelta vincente. I due furono un punto di
forza dell'azienda. Il direttore seppe darle il giusto taglio e i
necessari contenuti; Bernardini fece sentire tutto il peso della
sua esperienza proponendo per la testata la parola "
Nautica", decidendo di dotare la casa editrice di una
propria organizzazione di vendita degli spazi pubblicitari e
proponendo: "Stampiamola in rotocalco, si staccherà
immediatamente da ogni altra e sarà subito una
pubblicazione di grande livello." E così fu.
Noi tre giornalisti fummo costretti alla nuova scelta per la
necessità di pensare al nostro futuro. Anche noi dovevamo
tentare la nostra carta, però io continuai a scrivere per
"Italia sul Mare" per quasi un anno, fin quando il
lavoro sempre crescente di "Nautica" non me lo rese impossibile.
In quegli anni Tumminelli stampava il miglior rotocalco di Roma,
e ricordo ancora quando entrammo negli uffici al primo piano
della palazzina sul Viale dell'Università dove aveva sede
la tipografia. Ci avevano messo a disposizione due grandi stanze,
di cui una per la redazione. Erano spartane ma luminose e vi
trovammo come unico arredo tre vecchi banchi di scuola, il meglio
che, con il poco tempo avuto e i modesti mezzi della nuova
società, Bernardini fosse riuscito a trovare.
Ci scherzammo su e via a lavorare, perché l'entusiasmo era
tanto. Così, nella seconda metà del dicembre del
1961, in un paio di settimane - nonostante Vincenzo ed io
avessimo solo mezza giornata disponibile, perché la
mattina lavoravamo al Centro di documentazione della Presidenza
del Consiglio, sempre nel settore della stampa e della
comunicazione di massa - preparammo il numero zero di "Nautica".
Vincenzo e Carlo scrissero i testi e io mi cimentai in un lavoro
di estrema difficoltà come l'impaginazione di un
rotocalco, ben diversa, per precisione e necessità di
fantasia grafica, rispetto ai giornali in macchina piana di mia
esperienza. Ma ne uscimmo tutti molto bene. Al vaglio del salone
nautico di Parigi, il 10 gennaio, e poi al nascente Nautico di
Genova, alla fine dello stesso mese, piacquero immediatamente sia
l'immagine che i contenuti.
Così preparammo il numero uno, nel quale gli utenti
individuarono immediatamente un mezzo di informazione completo e
moderno e gli operatori un veicolo di grande efficacia per la
promozione dei loro prodotti. E, quando andammo in edicola, nel
marzo del 1962, Nautica Editrice aveva già
vinto la sua prima battaglia.
Era il prodotto nuovo che tanti aspettavano e che molti, da
allora, avrebbero cercato inutilmente di imitare.
Ma esaminiamolo questo primo numero.
L'editoriale sintetizzava con chiarezza il programma redazionale:
«È per chi naviga, per chi navigherà o per chi si
dovrà accontentare soltanto dei sogni che è nata
"Nautica", una rivista nuova per un fenomeno nuovo».
Ma lo stesso direttore non poteva immaginare quale sarebbe stato lo
sviluppo del diporto, praticato allora solo da poche migliaia di
persone. Proprio la nostra rivista, con l'intelligente lavoro dei
redattori e dei valenti collaboratori, avrebbe contribuito in
maniera determinante al boom del settore, che sarebbe seguito in
pochi anni.
Dire che continuamente incontro persone che mi dichiarano di
leggere - e molti di collezionare - la rivista dal primo numero
può sembrare una vanteria editoriale, invece è un
consenso che ci segue nel tempo e ci sprona a non dormire sugli
allori ma a migliorarci continuamente.
"Nautica - spiegava l'editoriale - vi insegnerà ad
acquistare un'imbarcazione, a condurla, a conservarla e a ripararla."
E, infatti, cominciò realizzando i servizi dal primo
Salone nautico internazionale di Genova (voluto dall'Ente Fiera,
all'epoca presieduto da Carlo Pastorino, che ne affidò
l'organizzazione all'Ucina con l'allora presidente Mario Arona e
segretaria signora Terry Palazzolo) e dal secondo SIN di Milano
(organizzato invece da Giuseppe Pasini e Fausto Cerruti),
riuscendo a fornire, in tal modo, anche le prime tabelle della
produzione che potevano facilitare la scelta di barche e motori.
E subito parlammo degli entusiasmanti gommoni, al loro albore. A
quei tempi, sul nostro mercato, c'erano la Pirelli, la Zodiac, la
Keppler, la Viking e stavano uscendo i primi Aerazur. Dalla
Francia, dove i battelli pneumatici già partecipavano a
gare motonautiche, la moda del nuovo mezzo stava trasferendosi in
Italia e in breve tempo, specie in Lombardia, sarebbero nate
alcune aziende artigianali per questo nuovo prodotto.
"Nautica" individuò il fenomeno e se ne fece
promotrice: proprio chi scrive avrebbe organizzato per la
rivista, dopo breve tempo, la famosa "100 km di Roma" e poi
ancora altre gare, tra cui un campionato per battelli di serie.
In questo settore c'era un gran fervore d'iniziative. Presidente
della Federazione italiana motonautica, in quegli anni, era il
conte Mario Agusta, quello degli elicotteri, e del Consiglio Fim
facevano parte Renato Cani, il plurimondiale Carlo Casalini,
Giuseppe Pasini e tanti altri nomi che molto hanno dato a questo
sport. Voglio però ricordare in particolare, di quel
Consiglio, Giuseppe Pelagallo, che dedicò la sua vita alla
motonautica, specie a quella del Lazio, e collaborò con
noi con entusiasmo, come commissario tecnico di tutte le gare
organizzate da "Nautica".
Aveva un negozio officina a Roma, all'Alberone, sull'Appia, ma
nel '62 era il re della Fiumara, con la darsena realizzata in una
base di aerosiluranti abbandonata, da lui stesso sminata e
bonificata, che ora fa parte dei cantieri Canados. Erano i tempi
della gloriosa M.I.L.A. di Como, un club tempio della
motonautica, quando il team della Carniti - con, tra gli altri,
Piergiorgio Carniti attuale direttore commerciale della Lepanto,
e l'astro nascente Angelo Vassena, divenuto poi presidente della
FIM e attualmente candidato liberale alle prossime elezioni a
Como - faceva strage di campionati e di record, anche a livello
internazionale. Contrariamente ad altri fuoribordo di costruzione
italiana che erano sul mercato in quegli anni, come il Bellanese,
il Guazzoni e simili, in difficoltà nell'ambiente marino
senza una supermanutenzione, i Carniti erano su un gradino
superiore, in grado di battere in gara i motori d'importazione.
Ma l'esiguità della produzione, proporzionale alle
potenzialità del mercato, impediva l'impiego di alcuni
materiali di maggiore affidabilità, utilizzati, invece,
sui motori americani.
L'utenza, perciò, restò giustamente esterofila,
pretendendo prima di ogni altra cosa l'affidabilità :
così anche i Piaggio e i Garelli, di derivazione
motociclistica, non riuscirono a sfondare. Ed è una
situazione che perdura, non legata alla capacità tecnica,
eccelsa, delle aziende nazionali, ma all'impossibilità di
un investimento industriale che sarebbe tutt'altro che remunerativo.
Quindi, quelli erano i tempi d'oro degli importatori, ma va
ricordato che le case d'oltre oceano pretendevano impegni
economici notevoli con un semestre d'anticipo.
Giuseppe Pasini già allora importava i Mercury, la Motomar
i Johnson, Fausto Cerruti gli Evinrude. Dall'Inghilterra Silvani,
sempre a Milano, importava i British Seagull, mentre dalla
Danimarca giungevano i Diesella importati dalla Svai di Napoli
(ce lo ricorda un'inserzione sul primo numero della rivista) e
dalla Svezia l'Albin e quel favoloso, supereconomico,
semplicissimo Crescent 4 cavalli, sempre importato dalla Marina
Motors di Pasini, usato da migliaia di pescasportivi e pescatori
professionisti italiani.
Molte marche dei motori fuoribordo, citate sul numero uno di
"Nautica", sono da tempo scomparse, a partire da Gale e
West Bend - importate direttamente dagli Usa da Ugo Marchi quando
aveva il negozio al S.Michele, sul lungotevere Ripa Grande, e poi
alla Nautirama, sul laghetto dell'Eur e anch'egli presente
immediatamente con la sua pubblicità su "Nautica"- per
proseguire con Scott, Perkins, Bundy, Clinton ecc.
Scrivemmo allora: arrivano i giapponesi, ma non era un grido
d'allarme quanto di curiosità per i nuovi Tohatsu da 2,5 e
6 HP, che comunque, mancando di un'adeguata assistenza e ricambi,
non potevano assolutamente inserirsi.
Ultima annotazione l'idrogetto. Era un momento in cui si guardava
con grande attenzione all'innovazione tecnologica. Negli Usa era
stato lanciato il Berkley Jet Drive, il primo di una generazione
di idrogetto entrobordo, in Italia invece la Garelli proponeva il
suo fuoribordo idrogetto, il Gar-Mar 4 cavalli, che però
alla prova del mercato non ebbe molta fortuna.
Come erano le barche per i fuoribordo? Nella provincia italiana
erano principalmente lance di legno e gozzi della grande
tradizione marinara, adattati alle esigenze dei nuovi propulsori.
L'utenza delle grandi città era invece già matura
per rivolgersi a soluzioni più moderne, che rendevano
liberi dalla schiavitù dell'ossessiva manutenzione e
preferiva lancette e motoscafi di plastica.
"Nautica" proponeva alcune barchette per iniziare, dal
prezzo più contenuto: il Veltro (in keselite, su licenza
Pirelli) dei cantieri Celli di Venezia, di 3,62 metri costava
170.000 lire; la Colombina, della Bianchi di Milano, m 2,60,
93.000; il Benny dei Cantieri nautici Canavesani, di Ozegna(TO),
m 3,31, 160.000; lo Yo Yo dell'Ars Mare di Milano, m 2,42,
75.000; la Procellaria della Fiart di Napoli, m 4,15, 235.000; la
Foca, della Cigala e Bertinetti di Torino, m 2,65, 95.000, il
Cavalluccio della Pozzi di Milano, m 2,45, 105.000 lire.
Se facciamo un confronto con l'Annuario di Nautica 1992, vediamo
che il prezzo, allora, rispetto al costo della vita, era forse
inferiore, mentre in proporzione i motori fuoribordo costavano di più.
Un tre cavalli Evinrude costava 120.000 lire, un 4 HP 215.000 e
un 5 HP 300.000, mentre un Mercury 6 HP veniva 230.000 lire.
Oggi, nonostante la grande innovazione tecnica, gli stessi motori
costano di meno. Infatti, per ottenere il valore attuale di una
lira del '62 è necessario moltiplicarla per il parametro
14,2406. e, quindi, il 3 HP dovrebbe costare 1.708.000 e invece,
oggi, un 3.3 costa 850.000 lire; il 5 HP dovrebbe costare
4.272.000 e invece costa 1.942.000; il 6 cavalli Mercury dovrebbe
costare 3.275.000 e invece costa 2.136.000 lire.
Naturalmente la percentuale di aumento varia con la politica
commerciale delle varie marche, comunque il lettore potrebbe
divertirsi a verificare i costi anche su barche e accessori.
Infatti, lo stesso esame, se rapportato alle barche, ci dice
invece che un Super Tritone Riva, di m 8,22 e motorizzato con due
Chris Craft da 275 HP ciascuno, costava 11.000.000. La stessa
barca oggi dovrebbe costare 154.646.600 lire, invece quella che
più gli si avvicina nell'attuale gamma Riva, l'Aquarama
Special di m 8,75 con due entrobordo benzina Thermo Electron da
228 HP costa 525.000.000.
Un Bora III in vetroresina di m 9,10 con due BPM da 185 HP
ciascuno costava 9.200.000 e oggi dovrebbe costare 131.000.000
mentre un pari dimensioni, ad esempio il Fiart 30' di m 9,60 con
due 150 HP Volvo Penta costa 158 milioni.
Ciò significa che le barche costano di più, magari
non tanto quanto l'esempio di Riva potrebbe farci pensare,
perché siamo ad un caso limite di barche in legno, una
volta comuni ed ora considerate dei gioielli di ebanisteria
Ma oltre alle barchette di plastica, c'erano anche i motoscafi
costruiti con i nuovi materiali plastici o anche di legno, in
alcuni casi con i lamellari. Ricordiamo Abit Sport, Ars Mare
(allora a Milano, oggi a Donoratico), Bianchi e Cecchi, la
C.R.A.I., i Cantieri Riuniti dell'Adriatico, con i famosi Bora II
e III, il Cantiere 2.000 di Monza, i Cantieri di Lesa (che poi si
sarebbero trasformati in Solcio), il Cantiere di Porta a Mare
(l'attuale Cantieri di Pisa) - che oltre ai motoscafi costruiva
anche i Polaris e gli Juppiter pubblicizzati in quarta di
copertina sul primo numero di "Nautica" - la Cranchi, la
Crestliner di Torino, il Cantiere di Donoratico (l'unico a
costruire un grande catamarano a vela), il Cantiere Giorgi e il
Cantiere Mochi di Pesaro, Motomar, Partenocraft di Napoli,
Piantoni, Pirelli, Posillipo (allora a Napoli), Riva di Sarnico,
Sangiorgio di Savona, il Cantiere San Marco di Milano e Tognacci.
Ce n'erano molti altri, ma il citarli trasformerebbe questa
storia in un elenco, mentre per i motor yacht, oltre ad alcuni
dei nominati, dobbiamo assolutamente ricordare Baglietto, con gli
Elba, Capri, Ischia e Super Ischia; Picchiotti, con Giglio e
Giannutri, e poi i gruppi dei liguri (Chiavari, S.Margherita,
Sangermani, Costaguta, Mostes, Valdettaro) e dei viareggini
(Codecasa, Maggini, Arno, Bergamini). Naturalmente c'era anche
l'Italcraft, col Sea Skiff, il California e l'X1 e con esso un
altro cantiere importante per la storia dell'offshore, la
Navaltecnica di Anzio, con i suoi Speranza e Speranziella, con
carene progettate da Renato Sonny Levi. Ma dell'offshore
parleremo successivamente, quando ricorderemo la Viareggio-
Bastia-Viareggio e il determinante ruolo svolto da "
Nautica" anche nel lancio di questo sport.
Nel profondo sud, a Palermo, c'erano Miloro e la General Craft; a
Molfetta, Calogero Jacono, ma tutti specialmente costruttori di
barche a vela.
In un mercato che, come abbiam visto, si rivelava, già
allora, sovraffollato, non mancavano anche gli importatori di
barche e sul primo numero di "Nautica" troviamo tra gli
inserzionisti la Motonautica Coronado, con sedi a Genova e
Milano, che pubblicizzava gli scafi americani della Cruise Along
e della Century, mentre Il Nostromo, di Loano era agente di una
barca inglese, l'Huntsman 28', tra le primissime al mondo con
carena Hunt con il Bertram " Cristina" di Campbell e
l'X1 dell'Italcraft. Ma sul mercato c'erano già i Chris
Craft, importati all'epoca da Fernando Venturi, a Fiumicino, ma
anche le barche della Owens, dell'American Boats e dalla
Akerboom, mentre a Milano la Scandinavian Motor Boats aveva
già iniziato le importazioni di barche danesi, anche a vela.
Per la vela quello era un momento molto particolare. La
produzione italiana era limitata e l'unico cantiere che
costruisse in vetroresina era l'Alpa di Offanengo; poi, c'erano
tutta una serie di costruttori di cabinati, molto rinomati, con
in testa Sangermani, e sparpagliati nelle varie marinerie del
Paese, come la Sicyd a Monfalcone, Calogero Jacono a Molfeta, i
Gallinari ad Anzio, la General Craft a Palermo, Canaletti a La
Spezia, la Stian a S.Margherita Ligure ecc.
Molti appassionati guardavano alla Francia e all'Inghilterra,
dove c'era un'esplosione di proposte dovute a una serie di
eccezionali progettisti. Tali proposte, che si materializzarono
con il lancio di nuovi cabinati e derive, crearono una
generazione internazionale di velisti che ora sta lentamente
svanendo e alla quale è legata la crisi della vela.
La passione per la vela che, tra la fine degli anni cinquanta e i
primi anni del '60, ha contagiato migliaia di italiani, è
nata, sì, sulla scia del benessere seguito alla
ricostruzione e al boom economico del nostro paese, ma anche come
conseguenza del grosso risveglio per tale impiego del tempo
libero che si ebbe, in quegli anni, in Inghilterra, ma
specialmente in Francia.
E proprio per comprendere quale fosse l'offerta stimolante che
veniva dall'estero è necessario soffermarsi un momento su di essa.
In Gran Bretagna, è noto, la nautica è uno sport
nazionale, come il cricket, il rugby o il footbool, ma viene
guardata con occhio particolarmente benevolo perché, da
secoli, la sopravvivenza della nazione è affidata alla
capacità di andar per mare dei suoi sudditi. Anche per
questo non vi sono restrizioni alla libertà dei
diportisti: l'unico limite è il senso di
responsabilità individuale e la consapevolezza di dover
pagare profumatamente ogni soccorso. Del resto, tutti ricordano
che, poco più di cinquant'anni fa, proprio i diportisti
inglesi si erano guadagnati la riconoscenza della nazione,
partecipando con le loro barche alla fantastica operazione di
salvataggio dell'esercito britannico a Dunquerque, facendo la
spola tra le due sponde della Manica.
E tale passione per il mare e la nautica continuò a dare
buoni frutti non appena la guerra fu passata.
Alla tradizionale maestria nella costruzione di ottime barche da
regata e da crociera, che fu adeguata alla richiesta dei tempi
con eccellenti motorsailer, si unì un momento magico per
la progettazione di derive e catamarani, barche che il boom
dell'auto di quegli anni favorì notevolmente perché
carrellabili o comunque trasportabili sul tetto dell'auto. E
specialmente queste ultime portarono alla vela numerosi, nuovi
praticanti. Ma, come dicevamo era un momento magico per tutta la
vela grazie a molti progettisti con nuove idee, come Robert
Clark, Uffa Fox, Jack e Laurent Giles, Jack Holt .John
Illingworth, Peter Milne, Colin Mudie, Camper & Nicholson, Angus
Primrose , Roland e Francis Prout, Jan Proctor, Tom Thornycroft
hanno grandi meriti in quest'opera di promozione della vela. Ad
essi va il merito di tante belle barche, molte delle quali
sconosciute o quasi in Italia. Oltre ai citati vi sono molti
altri progettisti britannici, ma è evidente che dobbiamo,
in questa sede, limitarci a poche citazioni.
Ad esempio, Fox aveva progettato nel '46, come versione più
moderna del dinghy 12 piedi stazza internazionale, il Firefly,
una deriva per singolo di m 3,66, con otto metri e quaranta di
vela, abbastanza diffusa in campo internazionale dopo il successo
in Inghilterra, e il Flying Fifteen, una barca a chiglia fissa,
per due persone, di m 6,10 fuori tutto, ma con lunghezza al
galleggiamento di 15 piedi, in grado di planare (la chiglia era
smontabile e ciò rendeva la barca carrellabile).
Jack Holt merita una particolare citazione per la grande
qualità delle molte derive da lui ideate. Tra i suoi
numerosissimi progetti ricordiamo: Cadet, deriva internazionale
di grande diffusione, di m 3,22, progettata nel 1947 come barca
da iniziazione per ragazzi per la rivista inglese specializzata
Yachting World; Enterprise, dello stesso periodo, deriva da
regata che raggiunse in Inghilterra una diffusione di oltre
tredicimila numeri velici; Hornet, 1951, deriva da regata per due
di m 4,88; Solo, 1955, deriva da regata per singolo, di m 3,77;
G.P.14, una deriva per famiglia di m 4,26, che utilizzava un
genoa come vela di prua; quindi Heron, un'altra deriva per
famiglia, trasportabile sul tetto dell'auto, lanciata sempre con
Yachting World e, infine, il Mirror Dinghy, la deriva di
iniziazione più popolare, venduta specialmente in scatola
di montaggio, lanciata col quotidiano londinese Daily Mirror, di
m 3,30 e pesante solo 27 chili, che ebbe un successo strepitoso
Jan Proctor, che , nel '64, avrebbe ideato il magnifico Tempest,
nel '53 aveva progettato Osprey, deriva da regata per tre uomini
d'equipaggio, di m 5,33, e nel '61 Gull, deriva di iniziazione
per due, di m 3,35 e, poi, cedendo all'esempio francese, il
minicabinato Prelude, di m 5,86. Gary Mull avrebbe lanciato, nel
'63, il suo Fireball, mentre, quando nacque "Nautica", la ditta
Maremonti Boats di Milano vendeva in Italia la deriva
semicabinata Tricorn, progettata da John Illingworth e Angus
Primrose. Del Cap. Illinghworth, famoso uomo di mare e skipper,
ricordiamo ancora lo yacht "Maica", presentato su uno dei primi
numeri della nostra rivista, che pur barca da crociera aveva
vinto tantissime, importanti regate nella terza classe RORC e
"Gipsy Moth IV", con cui Francis Chichester compirà il
giro del mondo tra il 1966 e il 1967 in 226 giorni. Angus
Primrose è noto invece per i suoi cabinati a vela tra cui
ricordiamo Gregal, North Wind, North Wood, Sirocco e tutta una
serie di Moody.
Per completare il campo inglese delle barche da regata l'ultimo
accenno è per i fratelli Prout, che, alla fine degli anni
cinquanta, avevano lanciato i catamarani della serie Shearwater.
La classe nacque dopo il terzo prototipo e si chiamò,
appunto, Shearwater III e, quando uscimmo, era importato in
Italia da Ugo Accetta, di Napoli. Oltre alla leggerezza aveva
forme portanti che lo facevano planare facilmente, raggiungendo e
superando anche i 20 nodi. E fu un esempio molto seguito da altri
costruttori. Partecipò alla "Uno per classe" di "Nautica"
che avrebbe avuto luogo l'anno successivo.
E quella di planare era una caratteristica delle derive degli
anni cinquanta, una svolta rispetto alle barche anteguerra,
dovuta sicuramente all'applicazione delle nuove conoscenze
tecniche e progettuali..
Per la progettazione di yacht vogliamo ancora ricordare Laurent
Giles per "Mith of Malham", "Wanderer III" esposto al Boat Show
del '63, "Trekka", dei Bowman e alcuni cabinati per la Westerly,
infine Camper & Nicholson per la serie dei Brigand e dei
Nicholson. Per dare maggiore significato alle citazioni, ci
riferiamo anche ad anni successivi all'uscita di "Nautica", che
dimostrano la valenza produttiva nel tempo di questi designer.
Il quadro francese della vela era ancora più ricco. Anche
qui i progettisti erano numerosi e bravi. Per le derive: Henri
Amel (anche per i cabinati), Maurice Amiet, Eugene Cornu, Pierre
Faraut, Jean Jaques Herbulot, Cristian Maury (anche per i
cabinati), Franì ois Sergent (anche per i cabinati), John
Westell. Per i cabinati: Beneteau, Jean Berret, Philippe Briand,
Michel Dufour, Jean Marie Finot e poi il Group Finot, Philippe
Harlé, Jeanneau, Michel Joubert, Jouet, J. L'Hermenier, G.
Marechal, André Mauric.
"Nautica" era uscita proprio nel momento dell'esplosione della
vela francese, di cui furono un simbolo il 420 di Maury, del
1960, e il 470 di Cornu (già progettista della deriva
semicabinata per due Belouga, nel 1943, e della deriva per
singolo Mousse, nel '53, e del monotipo Caneton, nel '57),
costruito nel 1963, che provammo puntualmente nella "Uno per
classe" di Anzio.del settebre '63, unitamente al mitico Vaurien,
deriva da iniziazione lanciata da Herbulot già nel '53 con
grande successo e seguita da Filibustier nel '57. Sempre
Herbulot, insieme a Sergent aveva progettato un semicabinato a
chiglia fissa, il Grondin, che poteva regatare con un equipaggio
di due persone.
Ancora Sergent, insieme ad Amel, nel '5O, aveva lanciato il
Mistral, deriva semicabinata per due, di m 5,20, e
successivamente, nel '59, il Super Mistral, barca semicabinata a
bulbo per due, di m 7,06. Infine, nel '54, Westell aveva
progettato il 5.0.5.
Sempre in questo periodo ci fu l'esplosione del piccolo cabinato
a vela da iniziazione, per due, tre o quattro persone, su cui
molte generazioni di velisti hanno mosso i primi passi. Li
rileviamo attraverso la borsa e la pubblicità di Nautica.
Il 600 Arcoa, importato da Marina Sport, m 6, quattro cuccette,
costava L. 2.500.000, compreso vele e motore ausiliario da 11 HP.
In proporzione, moltiplicando quella cifra per il valore attuale
di una lira del '62, cioè 14,2406, oggi dovrebbe costare
L. 35.600.000 e se andiamo a vedere il costo di un modello simile
attualmente in produzione scopriamo che oggi, in proporzione,
quel tipo di barca costa meno, anche se è sicuramente
migliore dal punto di vista della qualità, considerato che
nel '62 la vetroresina compiva appena i primi passi. Infatti,
consultando l'"Annuario di Nautica 1992", troviamo che un Altura
601 lusso, di m 5,98, costa 22.250.000, mentre alcuni cabinati
importati dalla Francia, quali il Coco, progetto Harlé,
costruzione Edel, m 6,50, costa 26 milioni; il First 210
Benetaau, progetto Gruppo Finot, di m 6,40 sta ancora sotto i 30
milioni, il Sun Way 21' della Jeanneau, m 6,50, circa 22 milioni,
il Cramar 5,99 22.500.000, l'Illimit progetto Abrami, di Cadei
22 milioni, addirittura il Full Ghallenger della Jullien,
progetto Joubert, di m 7,50 viene 18 milioni e quattrocentomila.
Tornando al '62-'63, troviamo ancora cinque barche di Jouet,
importate dalla Scala Sport di Milano: il Picoteaux, m 5,15, due
cuccette, L. 950.000 con vele; il Tiburon, 5,27, 4 cuccette,
1.300.000 con vele; il Golif m 6,50, quattro cuccette, 2.400.000
con vele; il Cap Horn, m 6,50, tre cuccette, 1.900.000 con vele
e, infine, il Triton, m 8,60, 4+2, 5.500.000 senza vele.
Se rifacciamo i conti su quest'ultima barca vediamo che oggi
dovrebbe costare L. 78.323.000. Guardando sull'Annuario troviamo
invece che un First Class 8, m 8,50, quattro cuccette, costa L.
30.400.000 e un First 285, m 8,77, cinque posti letto, viene
54.400.000 e un Jeanneau Sun Way 29', m 8,75, 57.200.000.
Quindi, anche su queste dimensioni siamo sotto, probabilmente
perché la crisi internazionale della vela ha spinto i
costruttori e gli importatori a mantenere contenuti i prezzi.
Ma torniamo alla nostra storia rammentando che, allora, Dufour,
Jeanneau, Beneteau e tanti altri nomi di oggi erano sconosciuti o
ancora non erano nati, mentre la proposta dei costruttori era
esenzialmente rivolta alla crociera, in genere per un gruppo
familiare o di amici. Ad esempio, la Velamotore, di Torino,
importava lo Chassiron, di m 8,65, L. 5.200.000, due barche
progettate da Herbulot, cioè uno sloop, il Milord, di m 8,
a L. 5.650.000, e il Cap Vert, un cutter di 8 metri a L.
4.550.000, nonché uno sloop di m 5,45 in lega leggera, il
Noirot a L. 1.475.000. E ancora furoreggiavano il Corsair, di m
5,50 con 2-3 sistemazioni per la notte, a L. 1.090.000 con le
vele, e il Maraudeur, di 4,89, a 879.000 lire sempre completo di vele.
Come sono cambiati i tempi. Nel '62 l'entusiasmo per la nautica
in tutta Europa, era grande, specialmente in Francia, e la nuova
industria delle barche da diporto, con la produzione in serie,
metteva alla portata di tutti, magari anche a rate, la
possibilità di acquistare una barca. La parte elitaria del
mercato poteva continuare a farsi costruire barche d'autore in
modello esclusivo, i così ddetti "one off", al prezzo
conseguente, mentre gli altri, che stavano per diventare
maggioranza e quindi un fenomeno economico rilevante, potevano
scegliere uno scafo, prevalentemente piccolo e spartano, in un
vasta produzione e, quindi, a un prezzo più abbordabile.
Ciò consentiva, per la prima volta, a tutte le classi
sociali di potersi avvicinare a un prodotto barca, finalmente non
più elitario, ma divenuto, come l'auto, una conuista
sociale dei nostri tempi. Finalmente l'uomo qualunque, pur che ne
avesse il desiderio nella scelta economica individuale, poteva
scoprire il mondo dalla barca, magari da un guscio di noce. E
molti quel mondo lo avevano visto con paura e angoscia durante la
guerra e ciò li aveva maturati, così, pur di
avvicinarsi alla barca, furono disposti a sacrifici di spazio e
di comodità. L'importante era navigare e tanti navigarono
e divennero innammorati del mare e delle barche. Anche l'Italia
seguì i cugini transalpini sul Corsair, sul Maraudeur, sul
Picoteaux, sul Golif, ma fino a un certo punto, quanto bastava,
però, che anche da noi si formassero alcune generazioni di
velisti appassionati.
Che c'era di italiano, allora, sul mercato? Molti cantieri
artigianali costruivano barche in legno su ordinazione. Ce
n'erano un pò dovunque. Ma la costruzione di serie di
barche a vela con i nuovi materiali iniziava appunto in quel
periodo in cui uscì "Nautica".
E di cabinati a vela nazionali, realmente di serie, in
vetroresina, ancora all'inizio del '63, c'erano solo quelli
dell'Alpa, il 7 metri (L. 2.500.000) e il 14,50 (L. 22.500.000) e
quello della Sicyd di m 9,34 (L. 5.500.000, comprensive di vele e
motore diesel ausiliario di 12 HP).
Beppe Veronelli, alias Franco Belloni, alle sue prime
collaborazioni con la rivista (poi, nel '64, ne sarebbe divenuto
il capo redattore) ci faceva, invece, un quadro molto dettagliato
delle imbarcazioni aperte costruite in Italia, suddividendole in
barche da regata, da diporto e da regata, infine,semplicemente da
diporto. Di queste ultime citava diciotto modelli, ma dieci erano
gommoni con vela ausiliaria e uno, il Fann 301, era una barca
pieghevole in compensato. Così alla fine rimanevano il Kid
della Bianchi Nautica, alcune lancette come la Cigno della BB
Fiberglass Line, la Calypso della Grifoplast, la Fuin della
Navalplastica, l'Orata della Cigala e Bertinetti, la D.U.M. del
Cantiere navale di Donoratico e un pram della Brambilla Ancora
meno numerose le barche ambivalenti, cioè idonee a provare
anche qualche regata: appena sette, di cui tre da iniziazione (la
Doris della Velo Scafi Clodia, la Colombina della Bianchi e il
Komby dinghy di Giacomo Ferro) e quattro da diporto e regata (due
progetti del vulcanico Dario Salata, Passerotto e Cardellino, poi
il Geronimo sempre della Bianchi, forse la più diffusa, e
infine il Delfino di Mulazzani. Di fronte al fervore di altre
nazioni c'era quasi da vergognarsi, anche perché passando
alle imbarcazioni da regata vengono citate tra le più
diffuse il Dinghy 12' S.I. (all'epoca circa 1.500 esemplari), il
Cadet (di Jack Holt, di cui abbiamo già parlato, scelto
per l'iniziazione dai principali circoli triestini), iniziava la
diffusione dell'Optimist (adottato allora per gli allievi dal
Circolo Vela Bari), diminuiva sempre più la diffusione
della Deriva nazionale V (una infelice scelta dell'USVI) mentre
cresceva quella del Flying Junior (progettato per l'iniziazione
da Uilke Van Essen nel '55, dopo il più impegnativo Flying
Dutchman ideato, sempre da Van Essen nel '51) e, proprio dal '62
quella del Vaurien (che anche in Italia avrebbe incontrato grande
fortuna), mentre resisteva lo Snipe e l'USVI spingeva per il
Flying Dutchman. Ci fa piacere, a questo punto, ricordare che la
Cranchi costruiva un magnifico Dinghy 12' S.I. in legno, mentre
la Pozzi lo costruiva in plastica, rispettivamente al prezzo di
380.000 e 350.000 lire, comprese le vele ( ma lo costruivano
anche Ottavio Puleo a Palermo, Patrone e Mostes); Alpa e Sicyd
producevano il Flying Junior a 320 e 280 mila lire (c'erano anche
quelli della Velscaf di Dario Salata e di Morri & Parra a
Rimini), l'Alpa anche il Flying Dutchman (700.000 lire) e la
Sicyd il Finn (350.000 lire), mentre per il Vaurien c'era solo il
giovane Gavazzi a Castiglioncello e per lo Snipe Patuccelli a
Gargnano e Danilo D'Isiot a Quinto.
C'erano state le Olimpiadi, a Napoli, nel '60, e gli italiani si
erano classificati terzi, medaglia di bronzo, con il dragone
"Venilia", timonato da Antonio Cosentino, mentre "Merope III", la
star di Agostino Straulino, rimaneva al quarto posto, fuori dalla
zona medaglie, e nei 5,50 S.I., con Pietro Reggio,eravamo
undicesimi, nei Flying Dutchman, con Mario Capio, dodicesimi e,
infine, nei Finn, con Bruno Trani, quattordicesimi. Non era stato
certo un risultato entusiasmante e sarebbe andata ancora peggio
nel '64, nella Baia di Sagami, a Tokyo, dove avrebbero gareggiato
5,50 S.I., Dragoni, Star e F.D.. Decisamente, non era un buon
momento per la nostra vela sportiva, al contrario di quella
amatoriale Com'era possibile?
A questo punto è necessario ricordare anche
l'organizzazione della vela sportiva in Italia. L'USVI, l'Unione
delle società veliche italiane - avrebbe riacquistato la
denominazione FIV solo nell'84 - era presieduta da Beppe Croce,
nobile e ricco genovese di gran polso, che da anni aveva il
bastone del comando e ancora per molti l'avrebbe mantenuto. Un
gran signore, di stile e di fatto, amato e rispettato dai velisti
di tutto il mondo, che alla vela nazionale ha dato molto in
quanto a prestigio. Il lato opposto della medaglia? Una
soffocante oligarchia, ma ciò avviene in tutte le
federazioni sportive italiane e si traduce in pratica nella
difesa dello status quo, in un progresso soltanto subito
gerarchicamente, nel nostro caso attraverso i canali ufficiali
dell'IYRU, e mai cercato nell'innovazione, specie se rischiosa.
Risultato: un tran tran di routine, con l'affossamento del
windsurfing e, più recente, dell'AICI, che , pur con i
suoi difetti, risultava prezioso. Del resto, anche l'IYRU è così.
Ricca di titoli nobiliari e nomi altisonanti, l'USVI aveva anche
una Commissione tecnica piena di gente competente, a partire dal
presidente, il dotto Artù Chiggiato, per proseguire con
Giulio Carcano e tutta una serie di ingegneri, ma facendo posto
all'indimenticabile Carlo De Zerbi, che doveva diventare uno dei
nostri migliori collaboratori, uno che di stazze e regolamenti
sapeva proprio tutto, tanto da far parte, praticamente in maniera
permanente, del più importante sottocomitato dell'IYRU.
Comunque, nel "62, Beppe Croce non poteva ancora beneficiare dei
nuovi velisti, o più esattamente dei figli e nipoti dei
nuovi velisti, cresciuti sapendo andare in barca, e di tutti i
giovani che costoro avrebbero addestrato per avere equipaggio e
partecipare alle regate dei circoli e poi a cimenti più
ardui, come campionati e regate internazionali. E ora questi
giovani, invece, li abbiamo, anche addestrati in validi corsi
federali, tanto da aver fatto man bassa di mondiali e coppe nel
'91, tanto da avere un equipaggio italiano di grande valore sul
"Moro di Venezia", impegnato nella Coppa America, e di averne
ancora altri da scegliere.
Proprio nel '62, facevamo il resoconto della sfida tra la barca
del Royal Sydney Yacht Club, "Greetel I" e il defender
statunitense "Weatherly". Lo sfidante riuscì a vincere
solo una regata e, così, finì quattro a uno per il defender.
Era opinione, allora, che le barche americane risultassero sempre
più forti perché il loro maggiore impegno non era
mai con lo sfidante quanto con gli altri aspiranti defender, tra
i quali si svolgevano dure regate di selezione. Ora, la
situazione si è completamente capovolta, perché,
nelle ultime edizioni, gli sfidanti sono molto più
numerosi dei difensori, ma, per fortuna degli americani, solo
pochi sono di alto livello tecnico, con ciò nulla volendo
togliere all'accertata bravura yankey.
Ma allora, più che la sfida di "Greetel I", facevano molto
più scalpore le gesta di Chichester, vincitore della prima
traversata in solitario dell'Atlantico, lanciata dall'Observer,
sempre un quotidiano inglese, nel '60. Anche questa era una
chiara scelta di vela libera, fuori dalle federazioni sportive,
in cui ogni partecipante si assumeva coscientemente il rischio di
una traversata molto difficile, ma appunto per questo
affascinante e in grado di accertare, al di sopra di ogni dubbio,
le effettive capacita marinare di uno skipper e della sua barca.
Viva l'Inghilterra, ricco, come tutti i paesi di contraddizioni,
ma sostanzialmente il più civile nel rispetto dei diritti
individuali, quando non contrastano con gli interessi nazionali.
E anche questo è giusto, altrimenti sarebbe anarchia.
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